giovedì 26 giugno 2008

Flâneur, digressione

Col termine “flâneur” si intende (tradotto malamente in italiano) “passeggiatore”, spesso senza méta, un po’ farfallone, un po’ bighellone, forse un incostante per indecisione. Insomma essere flâneur sembrerebbe nell’accezione corrente che abbia assunto un accento tutt’altro che positivo, anzi sembra insito nel termine una certa velatura di giudizio morale se non addirittura di pregiudizio.
Baudelaire, quando ha coniato questo termine, aveva tutt’altro giudizio e intendeva per flâneur una persona molto consapevole del suo comportamento pigro e privo di qualsiasi urgenza: “lo si sarebbe benissimo raffigurato come uno che porta al guinzaglio delle tartarughe lungo le vie di Parigi”. Già perché flâneur nasce come passeggiatore eminentemente cittadino e rappresenta il progenitore del turista come lo conosciamo oggi. Solo ai tempi del poeta questa figura cominciava a diffondersi ed avere una certa consistenza sociale: i viaggi diventavano appannaggio non solo della nobiltà (come era stato nel secolo precedente), ma anche della borghesia emergente, anche se spesso erano “viaggi” tutti interni alla città. Col tempo il raggio di questo “passeggiare” diventerà sempre più ampio, fino a raggiungere oggi l’intero globo terraqueo.
Dunque c’è un’ambivalenza nel termine flâneur come capita, nel tempo, ad alcune parole: il senso muta, a volte si stravolge.

Ma facciamo una piccola digressione. Anche il più incallito (chi cammina molto ha a che fare con questi piccoli inconvenienti) flâneur, ha sempre una méta seppur provvisoria. Il suo stimolo iniziale è l’andare e muoversi verso qualcosa che ha ben presente. Il fatto è che una volta che la raggiunge cambia obiettivo e tende a reiterare n volte questo meccanismo. Così sembra che non abbia le idee chiare o che sia un incostante e sicuramente, al fondo, dimostra la sua natura di perenne insoddisfatto. Il suo è uno zizzagare apparentemente senza senso alcuno.

Quando ero ragazzo io (anni 60 del secolo scorso) c’erano viaggi da veri flâneur: non era ancora il tempo del mitico viaggio in India che diventerà di moda dopo i Beatles (1968), ma ricordo che il viaggio più avventuroso ed assolutamente privo di motivazione logica era “andare a Capo Nord in tenda con la moto o con la 500”. Generazioni di ragazzi della mia età, a metà degli anni ’60, si sono cimentati in questo impresa (o almeno ci hanno pensato una volta). Impresa che aveva qualcosa di iniziatico nella sua preparazione, nel suo svolgersi e nel suo epilogo. Non ho mai sentito nessuno che abbia detto di aver fallito l’obiettivo: sarebbe stato come dire che si era fallita “La prova” che dimostrava la propria maturità raggiunta e la predisposizione per altri e più impegnativi viaggi. La rigida selezione avveniva prima ed alla fine partivano sempre in pochissimi.
Il viaggio aveva un’incubazione macchinosa: l’idea nasceva al bar dove i ragazzi (era una roba tutta al maschile, allora) si trovavano abitualmente (prima dei fast-food) e man mano che andava precisandosi e concretizzandosi avveniva una selezione degli interessati. Ci volevano tempo (un mese), mezzi (auto o moto), tenda canadese, qualche soldo per benzina e cibo. Avventura assicurata. Alla fine partivano in pochi, davvero pochi. Ma tremendamente motivati a compiere questa pazzia. A Capo Nord ci si arrivava sfiniti, dopo un viaggio lungo, che presentava soprattutto negli ultimi 2000 chilometri una prova di resistenza fisica e psicologica. E tutto serviva per vedere il “sole che non tramonta mai” davanti al Circolo Polare Artico. E raccontarlo estasiati a quelli che erano rimasti a casa. Naturalmente io ero tra quelli che erano rimasti a casa. Fin da allora i viaggi mi mettevano troppa ansia e preferivo esplorazioni più vicine. Diciamo che tornavo alle origini del flâneur che esplorava una ben delimitata e vicina realtà. Ma questa è un’altra storia.

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