martedì 14 marzo 2017

Un prete, anzi due, un incontro, un viaggio


Vedo una trasmissione alla RAI e presentano un libro: Si può fare. La scuola come ce la insegnano i bambini di Davide Tamagnini, Editore: la meridiana, Anno edizione: 2016.
L'intervistatrice chiede all'autore (un maestro di scuola primaria), quali siano stati i suoi maestri e lui cita don Gino Piccio che gli ha insegnato il metodo pedagogico di Paolo Freire, l'autore della Pedagogia degli oppressi un testo diventato "mitico" negli anni a cavallo tra il 1960 e 1970.

Ma non è tanto per Freire che mi colpisce, ma è quel don Gino Piccio che mi rimanda indietro alla fine degli anni '60 quando frequentavo d'estate le lande assolate dell'Alto Monferrato. Don Gino aveva creato una piccola comunità che si trovava in una cascina isolata, sulla strada che conduceva da Ottiglio alla Madonna dei Monti, uno dei punti panoramici più belli del Monferrato.



da Wikipedia

Gino Piccio (Cuccaro Monferrato, 12 settembre 1920 – Ottiglio, 10 marzo 2014) entra in seminario a diciotto anni, senza particolari pulsioni religiose, con l'obiettivo di poter studiare ed evitare il conflitto mondiale. Per gravi problemi di salute ha già perso l'uso di un polmone. Grazie ad alcuni assistenti spirituali, tra cui don Primo Mazzolari, sente crescere progressivamente in sé la vocazione. Viene ordinato sacerdote il 29 giugno 1947 e frequenta il gruppo sacerdotale missionario fondato da Mons. Vittorio Moietta (che diventerà vescovo di Nicastro), maturando un interesse verso gli ultimi che lo guiderà nell'impegno sociale. Nel 1960 diventa parroco alla chiesa di Santo Stefano a Casale Monferrato, ma nel 1967 ottiene il permesso di rinunciare definitivamente alla Parrocchia e dedicarsi completamente alla predicazione. Diventa prete operaio (bracciante agricolo in giro per il Piemonte), affitta un modesto locale a Casale e lì allestisce un piccolo cenacolo frequentato dalle anime cattoliche più inquiete.
In seguito al Terremoto del Friuli, nel 1976 la Caritas di Casale Monferrato chiede a Don Piccio di organizzare una squadra di volontari che corra in aiuto alle persone colpite dal sisma. Nel comune di Attimis Don Piccio rimane fino al 1978 coordinando centinaia di volontari che sotto la direzione di un capomastro (unico retribuito) ricostruiscono le case danneggiate dei più poveri[8]. Accanto al lavoro di ricostruzione, svolge attività di socializzazione e di sensibilizzazione con gli abitanti del posto.
Di ritorno dal Friuli, Don Piccio si confronta nuovamente con il metodo Freire. Nasce così il progetto di Verrua Savoia (settembre 1978 - maggio 1980). Il paese agricolo della pianura vercellese vive un progressivo svuotamento della popolazione, dovuto all'apertura di una fabbrica vicino a Chivasso; metà degli abitanti è anziana e l'assistenza sanitaria è il problema più sentito. La reazione provocata dall'applicazione del metodo Freire obbliga l'amministrazione a costruire una casa di accoglienza e a favorire l'installazione di linee telefoniche anche nelle frazioni più lontane dell'abitato.
Dopo il Terremoto dell'Irpinia del dicembre '80 la Caritas si rivolge nuovamente a Don Piccio per organizzare una squadra di volontari. Il sacerdote rimane nel comune di Ricigliano dal 1981 al 1983 con tre obiettori di coscienza al servizio militare a coordinare i volontari provenienti da ogni parte d'Italia. Dopo un anno passato a lavorare a fianco dei paesani, viene proposto agli abitanti di scavalcare le istituzioni (lente e poco interessate ai veri problemi della gente) e chiedere direttamente alla Provincia Autonoma di Bolzano, che si era resa disponibile, di sostenere economicamente l'elettrificazione delle aree rurali del comune. Viene anche coordinata la ricostruzione della chiesa e degli addobbi sacri tramite una gestione pubblica del denaro. Il processo pedagogico avviato, sebbene tra molte contraddizioni e difficoltà, porta risultati concreti positivi nel comune soprattutto per il cambiamento della mentalità di diversi abitanti locali, che nel corso degli incontri organizzati si trasforma da passiva e fatalista in attiva e propositiva. 
Si trasferisce infine a vivere in una cascina nei pressi di Ottiglio dove studia e impara ad applicare il metodo Freire.

Ai suoi funerali celebrati nel duomo di Casale Monferrato, il cardinale Severino Poletto, dinanzi a cinquanta sacerdoti arrivati da ogni parte d'Italia, affermò: «È stato un prete dal carisma particolare, che ha preceduto, come spirito, quello di Papa Francesco che raccomanda a noi sacerdoti di andare nelle periferie, non soltanto come luoghi, ma nelle periferie dello spirito»
Il metodo pedagogico di don Gino è basato soprattutto sul lavoro manuale ed anche io faccio la vendemmia dal vicino di casa di questo strano prete. Una giornata di lavoro a raccogliere uva e portarla con le gerle fino al carro. A mezzogiorno mangio con la famiglia contadina nella povera casa. La moglie porta una fumante zuppiera con la pasta al sugo e il padrone di casa tira fuori, come fosse un prestigiatore, un tovagliolo con piccoli tartufi. Li ha raccolti lui col suo cagnolino da trilola giù tra i pioppeti e i fossi alla base delle colline e mi da una grattata sopra la pasta come fosse la cosa più normale del mondo in questa casa. Non dimenticherò mai quel gesto.

La sera si prega nella "cappella" della cascina: quattro lastre di lamiera ondulata per la messa; all'interno un tabernacolo in ferro, costruito dagli operai con cui lavorava, cinto da una catena spezzata e sulla cui porticina sono saldati tre chiodi, simboli della fatica dell'uomo e dello spirito libero. All'omelia tutti possono parlare e dire la propria.

Con don Gino e altri che si trovavano alla cascina di Ottiglio ho fatto nel 1971 un indimenticabile viaggio che aveva come méta la Scuola 725 di Roma, la scuola messa su un altro prete "scomodo" don Roberto Sardelli tra le baracche dell'Acquedotto Felice a Roma.

Nel 1968 don Roberto Sardella lascia la parrocchia di San Policarpo, nel quartiere Tuscolano a Roma, e va a vivere con i baraccati dell’Acquedotto Felice. Lì don Roberto organizza una scuola, la 725, che prende il nome dal numero civico della baracca che la ospita. Seicentocinquanta famiglie hanno vissuto vicino all’acquedotto fino al 1974, anno in cui il Comune assegnò loro le case popolari.


Mentre si andava Roma su per l'appennino tosco-emiliano, non poteva mancare una visita all'ultimo degli eremiti del Convento di Camaldoli. Ma questa è un'altra storia.


2 commenti:

  1. Il mondo non finisce mai di stupirmi : insieme alle banalità e qualche volta le assurdità del nostro tempo, ci è dato - per fortuna -
    di sapere e qualche volta di vivere in prima persona esperienze di straordinario altruismo e generosità. Potrebbe sembrare uno dei tanti controsensi di cui è costellato il nostro esistere, ma è solo apparente : non dimentico che già Jung - nella sua analisi dell'essere umano- diceva che esso è capace dei più grandi gesti quanto delle più impensabili atrocità.
    Ed è bene tenerne conto ( come hai sottolineato anche tu in un tuo recente post ).

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  2. Storie e persone come queste da te descritte, ci aprono finestre su di una parte di mondo spesso invisibile, che non abita le cronache e sembra vivere fuori dal tempo o, forse, sarebbe meglio dire "fuori dai nostri tempi"

    RispondiElimina

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