sabato 31 ottobre 2015

Incontri letterari a Trieste


Passeggiando per Trieste si possono avere dei veri e propri "incontri letterari". La trovata (certamente non originale) di mettere le statue di scrittori lungo le strade della città è un pretesto (riuscito) per dire una cosa molto semplice: la loro opera è presente ancora oggi nella cultura della città. E così al porto canale si può incontrare James Joyce che ha vissuto 9 anni a Trieste a partire dal 1905. Insegnava inglese alla Berlitz School di via San Nicolò ed insegnò l'inglese a Italo Svevo e sua moglie con lezioni private alla sua villa Veneziani. Anche quello fu un incontro letterario: Joyce aveva confidato a Svevo di essere uno scrittore e di avere già al suo attivo alcune pubblicazioni (Chamber Music del 1907, un romanzo, A Portrait of the Artist as a Young Man (o Dedalus) e i racconti Dubliners), mentre Svevo (sconsolato) aveva risposto di aver tentato anche lui la via della scrittura, ma con scarsi risultati (aveva scritto "solo" Una vita e Senilità)...

Joyce scrive a Trieste la sua raccolta poetica Musica da camera

Amata, di quella si dolce prigionia (Musica da camera xxii)

Amata, di quella si dolce prigionia
La mia anima è lieta...
Tenere braccia che inducono alla resa
E voglion esser strette.
Sempre così mi trattenessero,
Felice prigioniero sarei!

Amata, quella notte mi tenta
Che, nel tremante viluppo delle braccia,
In alcun modo gli allarmi
Possano turbarci ma il sonno
A più sognante sonno si sposi e l'anima
Con l'anima giaccia prigioniera.

James Joyce

Da Una vita di Italo Svevo

Non aveva pensato mai al suicidio che col giudizio alterato dalle idee altrui. Ora lo accettava non rassegnato ma giocondo. La liberazione! Si rammentava che fino a poco prima aveva pensato altrimenti e volle calmarsi, vedere se quel sentimento giocondo che lo trascinava alla morte non fosse un prodotto della febbre da cui poteva essere posseduto. No! Egli ragionava calmo! Schierava dinanzi alla mente tutti gli argomenti contro al suicidio, da quelli morali dei predicatori a quelli dei filosofi più moderni; lo facevano sorridere! Non erano argomenti ma desiderî, il desiderio di vivere.
Egli invece si sentiva incapace alla vita. Qualche cosa, che di spesso aveva inutilmente cercato di comprendere, gliela rendeva dolorosa, insopportabile. Non sapeva amare e non godere; nelle migliori circostanze aveva sofferto più che altri nelle più dolorose. L’abbandonava senza rimpianto. Era la via per divenire superiore ai sospetti e agli odii. Quella era la rinunzia ch’egli aveva sognata. Bisognava distruggere quell’organismo che non conosceva la pace; vivo avrebbe continuato a trascinarlo nella lotta perché era fatto a quello scopo.





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