domenica 17 maggio 2020

I simboli di una piccola comunità. Il caso del cedro di Buscate

135 anni del cedro del Cimitero. Una storia legata alla nostra comunità.
Premessa. In questi giorni si decide se abbattere o meno un Cedro dell'Himalaya che da 135 anni sta davanti al Cimitero di Buscate in provincia di Milano. Questa è la storia della sua nascita.
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Il 3 maggio del 1885 Don Giovanni Battista Ferrari (professore emerito), Parroco di Buscate, inaugura il nuovo Cimitero di Buscate con una gran partecipazione di folla, delle Autorità, delle due Congreghe con le loro cappe nuove e della banda. L’entusiasmo è alle stelle e nel suo discorso il Parroco non lesina complimenti agli amministratori del Comune che lui chiama Estimati (le elezioni avvenivano ancora per censo e votavano solo quelli che avevano un reddito di almeno 19,8 lire di tasse pagate annuali – circa 90 € attuali -). Costoro “non consigliandosi colla parsimonia, che suggerirebbero i tempi, vollero che al bisogno fosse provveduto con buon gusto e larghezza di mezzi”. Il nuovo Cimitero prende il posto di quello ormai insufficiente di Via Villoresi (oggi parchetto delle rimembranze) che ha ospitato cinque generazioni di buscatesi (prima ancora, infatti, il cimitero era vicino a San Mauro). E’ ancora il Parroco che descrive l’opera: “ per ampiezza di spazio, per ben concepito disegno, per soda e corretta esecuzione, non che per ben intesi comparti interni, e per leggiadra disposizione di margini a verde perenne, e di alberi ospitali, che ne allietano l’ingresso (ndr ecco l'accenno ai 4 cedri dell'Imalaya che "fregiavano l'ingresso) è così ben riuscito, che tra i cimiteri rurali, a ben pochi può dirsi secondo”. A ulteriore fregio anche un “facoltoso e munifico proprietario di qui” (indicato in nota come Gaetano Motta), ha costruito un “marmoreo monumento… a pietoso ricordo de’ suoi cari estinti e che, colle sue forme severe, torreggia e sormonta questo recinto e anch’esso vi aggiunge lustro e decoro”.
Il discorso del Parroco è accalorato ed a tratti emozionante, non tralasciando dotte citazioni (non solo bibliche) e stoccate ai “materialisti”. Già i materialisti erano forse quei contadini che proprio in quegli anni cercavano di affrancarsi da una vita miserevole e da contratti agrari da fame.
A loro il Parroco ricorda: “E’ l’uguaglianza finale (ndr nella morte) che rende tollerabile la diseguaglianza sociale, contro cui, dagli imi strati, oggidì più che mai, si freme e tumultua”.
Ma la Boje era già partita nella provincia di Mantova e nel Trevigiano e si stava diffondendo a macchia d’olio nella pianura. Arriverà ben presto anche a Dairago e Villa Cortese il 5 maggio 1889 con la richiesta ai proprietari ("pretesa" la chiamavano Lor Signori) di ridiscutere i contratti. Alla sordità dei proprietari terrieri (tra i quali dobbiamo annoverare anche la Chiesa), la risposta si fa sempre più violenta tanto che ad Arluno è chiamato ad intervenire l’esercito del generale Bava Beccaris, quello che nello stesso mese sparò alla folla a Milano facendo 80 vittime e il giugno successivo fu insignito del titolo di grande ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia dal Re Umberto I e nominato senatore dl Regno. Il 21 e 22 maggio dello stesso anno i moti arrivarono anche a Buscate con l’episodio dei sassi che infrangono le grandi due lanterne davanti alla Villa che diventerà Abbiate e che aveva come proprietario all’epoca proprio quel Gaetano Motta che aveva costruito la tomba di famiglia al cimitero. Il risultato è l’arresto di due “facinorosi” Gaetano Miramonti e Antonio Nava, condannati rispettivamente a 40 giorni e sette mesi di carcere. Il Miramonti sbarcherà poi a Ellis Island il 13/06/1903 (Mi a vo via, p.16): è la sorte di molti “ribelli” che finiranno con l’emigrare per avere una nuova opportunità nella vita lontano dalla miseria.
Per tornare agli alberi “ospitali” che fregiano l’ingresso del Cimitero certamente uno di questi è il cedro dell’Himalaya che campeggia ancora oggi e speriamo lo faccia ancora per secoli.
Non spetta a me dire se questo albero centenario debba essere recuperato dopo i gravi danni subiti, saranno i tecnici ad esprimersi in merito: agli amministratori spetta l’onere di scegliere personale qualificato per questo tipo di analisi. Certamente, come o cercato di spiegare in questo articolo, questo albero è un simbolo per il paese e quando si maneggiano i simboli di una comunità occorre avere molte attenzioni. In passato non abbiamo avuto scrupoli e abbiamo distrutto pezzi della nostra identità (la chiesa di San Mauro, il Municipio, Villa Abbiate): i segni di questa sbrigativa e devastante liquidazione sono ancora ben visibili. Cerchiamo di valutare bene questa volta cosa fare.
Su Buscateblog potete anche leggere il testo integrale del discorso di Giovanni Battista Ferrari
L'immagine può contenere: una o più persone, folla, albero e spazio all'aperto
Un funerale del 1928. Si vedono oltre la cinta ed il cancello d'ingresso del Cimitero i 4 Cedri.
Quello più a destra è quello sopravvissuto fino ad oggi.
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L'entrata del Cimitero e al centro la Cappella Motta

domenica 10 maggio 2020

Tradimento

Intorbidi, se tocchi
l'acqua chiara.

Appena esci nel sole
tracci un'ombra.

Perciò se invochi dio
ti viene male.

Fabrizia Ramondino, Avvertimento, da Per un sentiero chiaro, Einaudi, 2004

Pensierino. Chissà perché rileggendo questa poesia ho pensato alla trasmissione di ieri sera di Roberto Benigni che raccontava i Dieci Comandamenti.




martedì 5 maggio 2020

Lucenti e rigide come antichissime statue

La festa è iniziata e dai casolari scendevano ai paesi (trasfigurati dalla memoria) di Schiazzano, di Montecchio, di Marciano, di Alisistri e Metamunno (paesi "alla marina" fuori Althénopis - la Napoli della Ramondino) le maestose matrone popolane.

Passano le vecchie dei casolari vestite di seta cangiante, marrone o verde bottiglia o nera, che noi vedevamo invece sempre infagottate o discinte, con le gambe nodose di varici e i piedi deformi, levati a volte su una pietra a riposare. Passavano vestite dalla testa ai piedi, lucenti e rigide come antichissime statue, depositarie di sapienza, tutrici della terra, dei parti, dell'allevamento dei figli, della cura dei malati e dei pazzi, e custodi delle basilari regole di civile e religiosa convivenza.

Questo capitolo del libro di Fabrizia Ramondino è molto evocativo e come si svolge la festa, prima religiosa, con i suoi riti della processione e benedizione, e poi di festa laica con le bancarelle e i "fuochi" finali, i fidanzati che si appartano, i bambini che sgusciano ovunque, curiosi, mi ha ricordato la mia infanzia e quelle atmosfere, anche se da noi, nella Lombardia di San Carlo, le commistioni tra religione e festa "pagana" erano assolutamente vietate. Eppure, malgrado questa cupezza imposta, c'era comunque un che di gioioso, che apriva al sorriso.

Il libro della Ramondino devo dire che solo a tratti mi ha entusiasmato, in particolare questo capitolo delle feste e gli ultimi del "Ritorno al nord", con il racconto del confronto/scontro con la madre. Lì il racconto si fa nervoso, sincopato, con frasi brevi, flash taglienti di una "normalità" borghese rifiutata. Per il resto la minuziosa descrizione della saga familiare personalmente stufa un po', ma è un giudizio molto sommario.

Rimane un libro da leggere.

Fabrizia Ramondino, Althénopis, Einaudi, ultima edizione 2016



Una guida dedicata al mio paese

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