Mi è rimasto un solo zio. Quello a cui sono più affezionato. Sapendo del suo stato di salute non proprio esaltante, mi sono deciso ad andarlo a trovare nella città che mi sta sempre nel cuore (Torino).
L'incontro è stato breve e intenso. Mi ha sempre parlato come un coetaneo anche se ho 35 anni meno di lui e sicuramente un carico sulle spalle meno grave del suo. Lui, deportato in campo di concentramento in Polonia e poi in Germania a 20 anni perché renitente alla leva, parla con leggerezza di quel periodo che ancora sente come fondamentale per la sua vita. Lui che mi confida che quando va a letto la sera si sente "sereno". Lui che si chiede con un certo timore: "come farò a morire?".
Passeggiamo sotto i portici da Piazza San Carlo verso Piazza Castello, fino da Baratti e poi nella Galleria del cinema Romano passando poi davanti al Teatro Carignano e al Museo Egizio. Ci fermiamo ogni 10 passi a raccontarci le nostre cose. Anzi mi accorgo che sto più ad ascoltare che a dire. Che posso dire io della mia vita ? E' poca cosa in confronto alla sua. Lui sarto per tradizione famigliare, deportato come schiavo i Hitler in Polonia a 19 anni, poi la ricostruzione ed il suo tentativo di fare il "salto" con un piccolo negozio di abbigliamento, poi ancora costretto ad abbandonare il paese per vicissitudini economiche ed emigrare a Torino dove sua moglie aveva trovato un lavoro come commessa (parliamo degli anni '60). Ricostruisce una vita professionale mettendo su un atelier di moda (lui è un mago del "taglio"). La figlia sposa uno della Torino bene (l'ambizione di riscatto sociale della madre si scarica sulla figlia). Sembra tutta andare bene poi la separazione tumultuosa della figlia e la malattia di sua moglie e la prematura morte. Ora lo vedo qui, avvolto nel suo mongomeri color cammello, con il suo cappello che gli ripara la pelata, magro e allampanato che pare uscito oggi dal campo di concentramento. Mi sorride.
Ci vediamo, zio, grazie di tutto.
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