giovedì 16 aprile 2020

Pro e contro la fotografia ed il suo uso

Da tempo ho in mente un progetto di un album fotografico familiare che però non sia una semplice raccolta di vecchie foto, ma qualcosa di più. Sarà l'età (freschi freschi i 70 anni) che porta una buona dose di nostalgia. Forse c'è (un po' velato) il desiderio che certe cose rimangano per qualche tempo almeno nella memoria di mio figlio (già i nipoti le avranno scordate).
Naturalmente la prima cosa da fare quando ci si appresta ad una simile impresa è sciogliere qualche piccolo dubbio. Cerco di spiegarmi. In primis cos'è una fotografia, poi cos'è quella fotografia per me, cosa potrebbe dire quella fotografia a chi non ha un rapporto emotivo con quella foto.

Divagazione 1. Di entusiasti e detrattori del mezzo fotografico ce ne sono a schiere: gli entusiasti in genere sono fotografi (più o meno dilettanti o professionali) e anche numerosi scrittori (Jack London, Giovanni Verga, Émile Zola, Lewis Carroll, Allen Ginsberg, August Strindberg, Silvio Perrella e Alessandro Baricco); di detrattori ne cito almeno tre: Italo Calvino (L'avventura di un fotografo), Giovanni Arpino (Contro la fotografia), Ronald Barthes (La camera chiara).

Tutti (entusiasti e detrattori) sono concordi col dire che la foto è un mezzo effimero: poche sono le foto che entrano come dire nell'immaginario collettivo e anche questo immaginario muta sempre più rapidamente tanto che basta un piccolo scostamento temporale o di luogo e tutto cambia.

Divagazione 2 (un po' più lunga).  Scrive Ronald Barthes in La camera chiara, Einaudi (p. 69)
Così, solo nell'appartamento nel quale era morta da poco, io andavo guardando alla luce della lampada, una per una, quelle foto di mia madre, risalendo a poco a poco il tempo con lei, cercando la verità del volto che avevo amato. E finalmente la scoprii.
Era una fotografia molto vecchia. Cartonata, con gli angoli smangiucchiati, d'un color seppia smorto, essa mostrava solo due bambini in piedi, che face­vano gruppo, all'estremità d'un ponticello dì legno in un Giardino d'Inverno col tetto a vetri. Mia ma­dre aveva allora (1898) cinque anni, suo fratello sette. Lui teneva la schiena appoggiata alla balau­strata del ponte, sulla quale aveva disteso un brac­cio; lei, pii discosta, pit1 piccina, stava di faccia; s'intuiva che il fotografo le aveva detto: «Fatti pini avanti, che ti si veda»; aveva congiunto le mani, te­nendole con un dito, come fanno spesso i bambini, con un gesto impacciato. Fratello e sorella, uniti fra loro, io lo sapevo, dalla disunione dei genitori, i quali avrebbero divorziato di li a poco, avevano po­sato uno accanto all'altra, soli, in mezzo al fogliame e alle palme della serra (era la casa in cui rnia. madre era nata, a Chennevières-sur-Marne).
Osservai la bambina e finalmente ritrovai mia madre, La luminosità del suo viso, la posizione in­genua delle sue mani, il posto che essa aveva docilmente occupato senza mostrarsi e senza nascondersi­, la sua espressione infine, che la distingueva, come il Bene dal Male, dalla bambina isterica, dalla smorfiosetta che gioca all'adulta, tutto ciò formava l'immagine d'una innocenza assoluta (se si vuole accogliere questa parola nella lettera della sua etimologia, la quale è “Io non so nuocere”)...

E Italo Calvino ne L’avventura di un fotografo, in Amori difficili, Einaudi p. 57

È il fotoreporter il vero antagonista del fotografo domenicale? I loro mondi si escludono?
Oppure l'uno dà un senso all'altro?» e così riflettendo prese a fare a pezzi le foto con Bice (ndr la fidanzata che l'ha lasciato) o senza Bice accumulate nei mesi della sua passione, a strappare le filze di provini appese ai muri, a tagliuzzare la celluloide delle negati-ve, a sfondare le diapositive, e ammucchiava i residui di questa metodica distruzione su giornali distesi per terra. «Forse la vera fotografia totale, pensò, è un mucchio di frammenti d'immagini private, sullo sfondo sgualcito delle stragi e delle incoronazioni.» Piegò i lembi dei giornali in un enorme involto per buttarlo nella spazzatura, ma prima volle fotografarlo. Dispose i lembi in modo che si vedessero bene due metà di foto di giornali diversi che nell'involto si trovavano per caso a combaciare. Anzi, riaprì un po' il pacco perché sporgesse un pezzo di cartoncino lucido d'un ingrandimento la-cerato. Accese un riflettore; voleva che nella sua foto si potessero riconoscere le immagini mezzo appallottolate e stracciate e nello stesso tempo si sentisse la loro irrealtà d'ombre di inchiostro casuali, e nello stesso tempo ancora la loro concretezza d'oggetti carichi di significato, la forza con cui s'aggrappavano all'attenzione che cercava di scacciarle. Per far entrare tutto questo in una fotografia occorreva conquistare un'abilità tecnica straordinaria, ma solo allora Antonino avrebbe potuto smettere di fotografare. Esaurite tutte le possibilità, nel momento in cui il cerchio si chiude-va su se stesso, Antonino capì che fotografare fotografie era la sola via che gli restava, anzi la vera via che lui ave-va oscura mente cercato fino allora. 

E di nuovo Ronald Barthes in La camera chiara, Einaudi (p.65 Citando Proust, Il tempo ritrovato)

Una sera di novembre, poco tempo dopo la morte di mia madre, mi misi a riordinare delle foto.
Non speravo di «ritrovarla », non mi aspettavo nulla da «certe fotografie d'una persona, guardando le quali ci par di ricordarla meno bene di quando ci accontentiamo di pensarla» (Proust). Sapevo perfettamente che, a causa di quella fatalità che è uno degli aspetti piú atroci del lutto, per quanto consultassi le immagini, non avrei mai più potuto ricordarmi i suoi lineamenti (richiamarli interamente a me). No. Conformemente al desiderio espresso da  Valéry alla morte della madre, io volevo « scrivere un libretto su di lei, solo per me» (forse un giorno lo scriverà, affinché, impressa, la sua memoria duri almeno il tempo della mia notorietà). Inoltre, quelle sue foto, fatta eccezione per quella che avevo pubblicato, in cui si vede mia madre giovane che passeggia su una spiaggia delle Landes e nella quale «ritrovavo» il suo passo, la sua salute, il suo fascino — ma non il suo volto, troppo lontano —, quelle sue foto non potevo nemmeno dire che le amassi: non mi mettevo a contemplarle, non mi ci perdevo.
Le scorrevo, ma nessuna di loro mi pareva veramente «buona»: nessuna performance fotografica, nessuna risurrezione viva del volto amato. Se un giorno le avessi mostrate a degli amici, dubito che esse avrebbero detto qualcosa.
Più modestamente faccio ancora due citazioni: la prima è del grande fotografo Gianni Berengo Gardin che risponde su cosa cerchi ancora dalla fotografia
Il racconto cerco, il racconto. Ci sono due tipi di fotografia che raccontano. Una, chiamiamola alla Cartier-Bresson tra virgolette: una foto unica che però racconti qualcosa. L’altra, il racconto con cento foto, quindi più dilazionato, per fare un libro.
 La seconda è ancora Roland Barthes:
Così è la Foto: non da dire ciò che dà a vedere.

Ecco mi piacerebbe fare un "racconto fotografico" per cercare di dire quello che vedo in alcune fotografie. E' banale?

PS Non ho ancora trovato un libro che devo consultare prima di buttarmi in questa avventura ed è di Lalla Romano, Lettura di un’immagine,

2 commenti:

I commenti sono moderati per evitare sgradite sorprese.

Una guida dedicata al mio paese

  Lo scorso anno scolastico ho presentato un progetto alla Scuola secondaria di primo grado (le "medie" di una volta) un progetto ...