martedì 27 luglio 2010

L'USCITA DALL'ARCA ovvero IL DISINGANNO da L'uomo invaso di Gesualdo Bufalino

Un mattino Noè decise di venir fuori. La colomba era tornata e ripartita, tornata ancora e ripartita ancora. Ormai lui non s’aspettava più che tornasse e il cuore gliene era radioso. Uscì col ramoscello d’ulivo in mano, cautamente toccò col piede scalzo la coltre di fango giallo dove la nave s’era chetata.
I primi passi furono d’ubriaco. Eppure s’avviò coraggioso, affondando fino al ginocchio, su per un crinale che prometteva un belvedere, lassù. Passo passo guadagnò la cima, da una balconata di roccia s’affacciò finalmente, avido di battezzare e amare con gli occhi la vergine terra. E la vide e la amò: sudicia di ruggini e muffe, fumosa di vulcani, pezzata da mille pozzanghere ma rutilante, oh quanto rutilante, di festa e di gioventù!
Quando ridiscese, lo attrasse un rimasuglio triangolare d’acqua in una cavità della pietra. Non gli dispiacque la faccia che vi specchiò, cotta dal sale e dal vento, arata da mille spaventi. Una faccia ch’era maestosa d’anni, ma, insieme, acerba e attonita, tale e quale la terra, e altrettanto corrusca di un sotterraneo sorriso. Il quale divenne riso spiegato, udendo il subbuglio davanti all’uscio dell’arca, donde, senza più legge, le famiglie pedestri, volatili e rettili sciamavano fuori, correndo, strisciando, volando a grotte, nidi, covili. I suoi stessi figli, Sem, Cam e Jafet, vide andarsene, ciascuno per la sua strada. Solo la donna taceva, in piedi accanto a lui, e lui le carezzò con la mano i capelli.
“Guarda”, le disse e mostrò col gesto la terra, gli arcipelaghi, i golfi, il cristallo dell’aria, le peripezie delle valli e dei fiumi, il teatro degli orizzonti. Un tanfo di putredine dolciastra se ne levava tuttora, ma nel limo già misteriosi semi fiorivano, diamanti di stille pendevano dalle fronde, radici si tendevano a berle, occhi di creature scintillavano freschi nell’erba.
Il vecchio volse il capo al cielo, aspettando. Il cielo era azzurrissimo e vuoto, dove un arcobaleno ironico impallidiva. Poi una colomba apparve lassù, la sua colomba, e sembrava sbandare con ali goffe, sbalordita dal sole. Noè non s’avvide del falco, sentì solo un frullo, uno strido e piombargli un’ombra bianca fra i piedi, spruzzargli le gambe col sangue della sua gola squarciata.
Ma come? Noè aguzzò occhi e orecchi sospettosi sul mondo. Stupefatto e sospettoso spiava il mondo redento. E udì le voci irose dei figli, vide su un sasso chiudersi un pugno, un ragno tessere fra due steli una tela e una mosca ronzarvi accanto. Un lupo urlò dietro un agnello, una vipera morse un calcagno... Ma come? L’uomo chiese con gli occhi alla donna e la donna gli rispose con gli occhi. Una lacrima scorse a Noè lungo la gota, si mischiò col pelame del mento. Lui la pulì col rovescio della mano, curvò le spalle, s’incamminò.
“Ma come?” si domandava.


Pensierino. Non c'è espiazione che tenga, non c'è penitenza abbastanza crudele, non c'è esperienza del male così oscura da far amare la luce.

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