venerdì 12 novembre 2010

Sei personaggi in cerca...

In un teatro una compagnia sta provando una commedia brillante. Solite scene di piccola umanità: un attor giovine non più giovane, una prima donna eccentrica e capricciosa, amori galeotti tra gli attori, "operai" del teatro che armeggiano intorno cercando di far funzionare una macchina che sembra già a pezzi.
Nella scena irrompono sei personaggi, stralunati, spiritati: una donna velata con due bambini (la madre), suo marito, un figlio già uomo, la figliastra (una ragazza giovane e di grande bellezza).
Capocomico. Chi sono lor signori? Che cosa vogliono?
Il padre (facendosi avanti, seguito dagli altri, fino a una delle due scalette). Siamo qua in cerca d'un autore.
Il capocomico (fra stordito e irato). D'un autore? Che autore?
Il padre. D'uno qualunque, signore.
Il capocomico. Ma qui non c'è nessun autore, perché non abbiamo in prova nessuna commedia nuova.
La figliastra (con gaja vivacità, salendo di furia la scaletta). Tanto meglio, tanto meglio, allora, signore! Potremmo esser noi la loro commedia nuova.
Qualcuno degli attori (fra i vivaci commenti e le risate degli altri). Oh, senti, senti!
Il padre (seguendo sul palcoscenico la Figliastra). Già, ma se non c'è l'autore!
Al Capocomico: Tranne che non voglia esser lei...
La Madre, con la Bambina per mano, e il Giovinetto saliranno i primi scalini della scaletta e resteranno lì in attesa. Il Figlio resterà sotto, scontroso.
Il capocomico. Lor signori vogliono scherzare?
Il padre. No, che dice mai, signore! Le portiamo al contrario un dramma doloroso.
La figliastra. E potremmo essere la sua fortuna!
Il capocomico. Ma mi facciano il piacere d'andar via, che non abbiamo tempo da perdere coi pazzi!
Il padre (ferito e mellifluo). Oh, signore, lei sa bene che la vita è piena d'infinite assurdità, le quali sfacciatamente non han neppure bisogno di parer verosimili; perché sono vere.
Il capocomico. Ma che diavolo dice? 
Il padre. Dico che può stimarsi realmente una pazzia, sissignore, sforzarsi di fare il contrario; cioè, di crearne di verosimili, perché pajano vere. Ma mi permetta di farle osservare che, se pazzia è, questa è pur l'unica ragione del loro mestiere.
Gli Attori si agiteranno, sdegnati.
Il capocomico (alzandosi e squadrandolo). Ah sì? Le sembra un mestiere da pazzi, il nostro?
Il padre. Eh, far parer vero quello che non è; senza bisogno, signore: per giuoco... Non è loro ufficio dar vita sulla scena a personaggi fantasticati?
Il capocomico (subito facendosi voce dello sdegno crescente dei suoi Attori). Ma io la prego di credere che la professione del comico, caro signore, è una nobilissima professione! Se oggi come oggi i signori commediografi nuovi ci danno da rappresentare stolide commedie e fantocci invece di uomini, sappia che è nostro vanto aver dato vita—qua, su queste tavole—a opere immortali!
Gli Attori, soddisfatti, approveranno e applaudiranno il loro Capocomico.
Il padre (interrompendo e incalzando con foga). Ecco! benissimo! a esseri vivi, più vivi di quelli che respirano e vestono panni! Meno reali, forse; ma più veri! Siamo dello stessissimo parere!
Gli Attori si guardano tra loro, sbalorditi.

Intermezzo pensieroso. Pirandello capovolge la "finzione" scenica riportandola alla realtà, ben intuendo che ciascuno "recita una parte". Oggi non si recita più, si crede fermamente di essere proprio il proprio "personaggio", non c'è distacco, che significa anche autoironia...

Il Padre (rivolto al Capocomico). Il dramma scoppia, signore, impreveduto e violento, al loro ritorno; allorché io, purtroppo, condotto dalla miseria della mia carne ancora viva... Ah, miseria, miseria veramente, per un uomo solo, che non abbia voluto legami avvilenti; non ancor tanto vecchio da poter fare a meno della donna, e non più tanto giovane da poter facilmente e senza vergogna andarne in cerca! Miseria? che dico! orrore, orrore: perché nessuna donna più gli può dare amore.—E quando si capisce questo, se ne dovrebbe fare a meno... Mah! Signore, ciascuno—fuori, davanti agli altri—è vestito di dignità: ma dentro di sè sa bene tutto ciò che nell'intimità con se stesso si passa, d'inconfessabile. Si cede, si cede alla tentazione; per rialzarcene subito dopo, magari, con una gran fretta di ricomporre intera e solida, come una pietra su una fossa, la nostra dignità, che nasconde e seppellisce ai nostri stessi occhi ogni segno e il ricordo stesso della vergogna. È così di tutti! Manca solo il coraggio di dirle, certe cose!
La figliastra. Perché quello di farle, poi, lo hanno tutti!
Il padre. Tutti! Ma di nascosto! E perciò ci vuol più coraggio a dirle! Perché basta che uno le dica—è fatta!—gli s'appioppa la taccia di cinico. Mentre non è vero, signore: è come tutti gli altri; migliore, migliore anzi, perché non ha paura di scoprire col lume dell'intelligenza il rosso della vergogna, là, nella bestialità umana, che chiude sempre gli occhi per non vederlo. La donna—ecco—la donna, infatti, com'è? Ci guarda, aizzosa, invitante. La afferri! Appena stretta, chiude subito gli occhi. È il segno della sua dedizione. Il segno con cui dice all'uomo: «Accecati, io son cieca!».
La figliastra. E quando non li chiude più? Quando non sente più il bisogno di nascondere a se stessa, chiudendo gli occhi, il rosso della sua vergogna, e invece vede, con occhi ormai aridi e impassibili, quello dell'uomo, che pur senz'amore s'è accecato? Ah, che schifo, allora che schifo di tutte codeste complicazioni intellettuali, di tutta codesta filosofia che scopre la bestia e poi la vuol salvare, scusare... Non posso sentirlo, signore! Perché quando si è costretti a «semplificarla» la vita—così, bestialmente—buttando via tutto l'ingombro «umano» d'ogni casta aspirazione, d'ogni puro sentimento, idealità, doveri, il pudore, la vergogna, niente fa più sdegno e nausea di certi rimorsi: lagrime di coccodrillo! 



6 commenti:

  1. Chi siamo? Uno, nessuno, centomila?
    L'uomo per il suo bisogno di certezze vorrebbe avere un immagine di se, unica,immutabile, coerente e allo stesso modo vorrebbe fare con gli altri e rinchiuderli in una definizione che li caratterizzi: egoista, altruista, buono, cattivo, santo diabolico! eh che? se oggi sei egoista domani non puoi venire da me e fare l'altruista!! mi destabilizzi!! E poi certo che ci atteniamo ai ruoli che ci siamo costruiti o che ci siamo ritrovati incollati addosso!! Salvo sapere profondamente dentro di noi che cambiamo in continuazione, che il me di ieri non è il me di oggi, che quello che credevo oggi magari non lo crederò domani, che sostanzialmente io sono Uno, in continua mutazione,il mio uno di ieri non è quello di oggi, ma sostanzialmente sempre UNO E' in ogni momento!! Tuttavia con il mondo esterno non facciamo altra che fingere una sorta di coerenza e siamo quello che fingiamo e un tempo volevamo e credevamo di essere, siamo quello che i nostri genitori pensavano per noi, siamo quelli che gli altri si aspettano che siamo..siamo quelli responsabili su cui gli altri contano...si siamo tante cose e nessuna magari ci appartiene veramente!

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  2. quello che ci frega sono le aspettative. Le nostre verso gli altri, e quelle degli altri verso di noi. E' un continuo gioco (o giogo?) di scambio di maschere. C'è una cosa che mi fa andare in bestia ed è quando mi dicono "ma che fai? non è da te". ecco, parte tutto da qui, la ricerca spasmodica di essere uno, temendo di essere nessuno, provando ad essere centomila.

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  3. Oggi su usa dire "ci vuole un po' di auto-ironia", siamo diventati sempre più indulgenti verso di noi. Preferisco l'esortazione graffiante di Gastone quando dice che non abbiamo "orrore di noi stessi"...

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  4. l'autoironia non sempre è assolutoria, quasi mai, piuttosto consolatoria, e spesso è una forma edulcorata di autosarcasmo, l'orrore di sé sarebbe insopportabile altrimenti.

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  5. quoto Aria, come spesso accade ... e aggiungo: bel post :-)

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  6. Grazie a Janas...già essere due (Dottor Jekyll and Mr. Hyde insegnano) sarebbe difficile e porterebbe a drammatiche conseguenze...figuriamoci se moltiplichiamo...

    XAria & Mat. La cosa più difficile è guardarsi allo specchio come insegna Emily D.

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