Mi ha sempre fatto sorridere, nei commenti all’opera poetica di Rilke, l’interpretazione del suo periodo dal 1895 al 1908 come il “progressivo concentrarsi dell’attenzione di Rilke sul mondo delle cose. Sappiamo che l’evolversi del suo pensiero in questa direzione è dovuto alla volontà di sottrarsi ai pericoli –per la qualità del risultato poetico- insiti nell’esercizio di un talento linguistico e versificatorio troppo potente”.
Poi leggo questi versi delle Elegie duinesi (la seconda)
Ogni angelo è tremendo. E tuttavia, haimè,
io vi canto, uccelli quasi mortali dell’anima,
sapendo di voi.
Mi smarrisco subito. Cerco conforto nella curatrice delle Poesie 1907-1926 Andreina Lavagetto (ed. Einaudi) che mi spiega il contesto nel quale è nata questa seconda elegia.
E’ la fine di Gennaio 1912 e Rilke si trova a Duino. E’ combattuto perché sente come esaurita la sua vena poetica ed è tentato di far ricorso alla psicanalisi per reagire ad uno stato di confusione. Scrive all’amata Lou Salomé “quel che conosco degli scritti di Freud non mi è simpatico, a tratti anzi mi fa rizzare i capelli; ma la cosa che egli porta avanti ha i suoi lati autentici e forti”. E ancora “La psicoanalisi è un rimedio troppo radicale per me, aiuta una volta per tutte, fa piazza pulita, e trovarmi ripulito, un giorno, sarebbe una cosa ancora più disperata, forse, di questo disordine” (p. 647).
Scrive Rilke al suo traduttore polacco Witold von Hulewlewicz “La morte è la faccia della vita che da noi si distoglie, da noi lasciata al buio; dobbiamo tentare di essere massimamente consapevoli della nostra esistenza, che è di casa nei due territori non separati, inestinguibilmente nutrita da entrambi… La vera figura della vita attraversa i due campi, il sangue del circolo estremo li bagna entrambi: non esiste né aldiquà né aldilà, bensì la grande unità in cui sono di casa gli esseri che ci sopravanzano, gli angeli” (p. 644). Naturalmente Rilke è molto lontano da una concezione cristiana ed i suoi angeli sono metafore. Dice dell’angelo: “E’ tutto ciò che l’uomo non sa o non vuole essere: l’assolutezza del sentire e dell’agire, le forze che si rigenerano, l’identità col proprio sé la libertà dal tempo, la trasformazione perenne… Assolve (l’angelo) senza residuo al compito che l’essere ci affida: trasformare il visibile in invisibile…” (p. 642).
“Le Elegie duinesi sono il poema luttuoso dell’insufficienza del sentire umano di fronte ai grandi compiti dell’esistenza. L’esperienza dell’amore, l’esperienza della morte, la felicità e il dolore, l’attenzione alle cose del creato, sono compiti dinanzi ai quali l’uomo fallisce. Fallisce perché il suo corpo e la sua mente (il cuore rilkiano) sono condannati, per destino, alla coscienza del tempo e della fine. Fallisce inoltre perché insiste sulla difesa di sé e rifiuta, per paura della morte, di varcare soglie che potrebbero avvicinarlo all’universo aperto dove vivono tutte le creature, e i morti”. (p. 641)
Ora posso immaginare questa “potenza” poetica (senza più sorridere) e cosa potrà fare.
Nota a margine: Rilke a Duino.
-da una lettera di Rilke a Hedwig Fischer, 25 ottobre 1911-
[…] un castello immensamente arroccato sul mare, che come un promontorio di esistenza umana guarda con alcune finestre […] su una distesa marina smisuratamente aperta, direttamente nel Tutto, verrebbe da dire, e nei suoi spettacoli generosi, che sopravanzano ogni altro spettacolo […] Ma dietro, quando si esce da tutti i portali sicuri, s’innalza, non più accessibile del mare, il Carso deserto; e l’occhio, sgombro da tutte le cose piccole, prova una commozione particolare per il giardinetto della rocca, che si avventura in basso, come la risacca, là dove il castello non occupa tutto il pendio; e acquista rilievo il parco, che copre il successivo promontorio della costa. Su quel parco, sbrecciata e cava, guarda la rocca più antica, che fu costruita prima di questo castello già antichissimo, e sui cui contrafforti, così vuole la tradizione, sostò Dante […]
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