Deucalione e Pirra
Lo spunto per questo post mi è stato dato dalla lettura del bellissimo libro di Maurizio Bettini, C'era una volta il mito, Sellerio, 2007.
Tra i numerori miti greci analizzati (in modo discorsivo e spiritoso), Bettini ci racconta quello di Deucalione e Pirra. La coppia ha messo al mondo una prima generazione di uomini, ma non piacevano a Zeus che ha deciso di mandare un diluvio che li ha sterminati. Alla fine del diluvio Deucalione e Pirra, che si sono salvati su una barca (guarda un po'!), atterrano sul Parnaso luogo sacro ad Apollo ed alle Muse (come dire la terra della bellezza e della poesia). E qui decidono di fondare una nuova dinastia di uomini e donne cominciando a generarli in un modo un po' bizzarro: lanciando dietro le proprie spalle delle pietre. Ora il popolo greco si chiama laòs e i sassi làas ed è facile capire che il gioco è fatto (agni antichi piaceva divertirsi con queste assonanze). D'altra parte sembra che anche il latino humanus derivi da humus...
Ma ci interessa il fatto del buttare pietre dietro le spalle. E' sicuramente un rituale che ne ricorda altri come quello di Orfeo ed Euridice: Orfeo scende agli inferi per riportare indietro la moglie Euridice, ma la perde perché all'ultimo momento si gira verso di lei. Non ci si deve voltare "a guardare i morti, questa è una antica legge, farlo significa restare prigionieri del loro mondo tenebroso. Anche il padre di famiglia romano si guarda bene dal farlo. L'antico rituale voleva che, ogni anno, egli compisse una sorta di purificazione dai fantasmi antenati - i manes, gli spiriti dei morti - che sono ancora presenti nella sua casa e, in qulache modo, possiedono lui e la sua famiglia. Lui deve invitarli ad uscire, e lo fa scagliando delle fave nere dietro le proprie spalle, senza voltarsi. Insomma, l'agire senza voltarsi, il compiere azioni non davanti a sé ma dietro, vuol dire: io sto facendo qualcosa, però non voglio entrare in contatto con ciò che sta avvenendo dietro di me. Perché? Ma perché questo sarebbe troppo per me; se io guardassi sarei rovinato, sarei contaminato, oppure rovinerei l'evento che si sta realizzando dietro le mie spalle."
Lascio a voi ragionare su come la nascita sia assimilata nei rituali raccontati dai miti alla morte e cosa significa generare se non distaccarsi da un'altra creatura...
"Un lutto greco, come quello romano, è gestito dalle donne, sono loro, nel mondo antico, quelle su cui ricade in primo luogo il compito di amministrare ritualmente l'uscita dalla vita, di far fronte alla «perdita della presenza», come il grande Ernesto de Martino definiva il vuoto che si spalanca in occasione di una morte (ndr E. de Martino, Morte e pianto rituale, Boringhieri). Proviamo ad immaginare la scena di un lutto greco. Siamo di fronte a donne con i capelli sciolti die compiono gesti di disperazione molto antichi, codificati, che si battono il petto, oppure si mettono le mani sulla testa, come vediamo nelle rappresentazioni vascolari; e soprattutto donne che cantano il thrènos, un canto di lutto in forma di cantilena ossessiva e ripetuta. Nel sud dell'Italia e in altre regioni del Mediterraneo, costumi simili venivano praticali almeno fino alla merà del secolo scorso, e forse in qualche caso si praticano ancora. Le Meleagridi si abbandonano dunque al pianto funebre, ma in un modo cosi straziante che Artemide, a un certo punto, ebbe pietà di loro, il mito racconta che la dea le trasformò negli uccelli che, per l'appunto, si chiamano «meleagridi», meleagrìdes."
Quando cantavano le meleagridi ripetevano il loro nome quasi a voler ricordare in pianto straziante di quelle donne. Così avviene nel mito anche per l'usignolo che sarebbe stata Procne che aveva ucciso il suo stesso figlio e che trasformata in uccello continua a ripetere all'infinito il suo nome: Itù, Itù . Così accadeva per la rondine e l'upupa.
"Siamo di fronte ad uno degli aspetti forse più affascinanti del mito greco: la sua capacità di mettere in contatto il mondo della cultura e il mondo della natura attraverso il racconto da un lato, il ricordo di esso - iscritto nella natura attraverso una metamorfosi - dall'altro. Il mito greco, infatti, è pieno di uomini e di donne che furono trasformati in animali a seguito di una determinata vicenda. Di fronte a un animale non si è mai sicuri se, per caso, esso non rappresenti un qualche uomo o donna che furono mutati, ad un certo momento, in quell'animale da una divinità; così come accade di fronte a una pianta, a una roccia, a un fiume. Il mito è anche un modo per dare un senso, un significato profondo alla natura che ci circonda: ecco perché persine il canto di un uccello può essere capace di resuscitare il ricordo di un evento mitico".
(Le pagine citate si trovano al capitolo V del libro di Maurizio Bettini, C'era una volta il mito, Sellerio, 2007)
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Orfeo e .. Euripide?
RispondiEliminaMi pare che il sottotitolo del tuo blog sia veramente indicativo.. è sbagliato anche quello...
francesca
@Francesca. Ringrazio per la "cortese" segnalazione di errore...
RispondiEliminaVita, morte, trasformazione...
RispondiEliminaChe bello sentir raccontare storie che ci ricordano che il Tutto in cui siamo inseriti è una realtà dinamica, multiforme e non banale. Che bello vedere le molteplici relazioni delle cose tra loro. Allora la morte diventa parte della vita e tutto, tutto è molto più naturale e meno pauroso. Grazie, Giorgio.